Diego Pasqualin

Diego Pasqualin

30/07/2021
Diego Pasqualin
Inaugurazione a Studiodieci

“Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio
e il naufragar m’è dolce in questo mare.”
(Giacomo Leopardi, L’Infinito)

Risacca. Proprio così. Mi lascio trascinare dalla risacca delle onde, da quel tormento che non conosce tregua, in un continuo moto che arretra e avanza, risucchia e mi schianta, infrangendomi, contro a dell’altra acqua. A malapena riesco a prender fiato perché, in quel movimento, non vi è bussola o appiglio, perché al suo interno si cela l’eterno. Così il rumore si fa ovattante silenzio, e viceversa. Ancóra: risacca. Àncora: risacca.
La voce per l’aria s’impreme senza inondazion d’aria, e percote nelli obbietti e ritorna  indirieto alla sua causa.
Le percussione de’ corpi liquidi co’ densi son d’altra natura che le percussion predette. E le percussioni de’ liquidi co’ liquidi ancor si variano dalle percussioni antecedenti. Le percussion de’ densi co’ liquidi se n’è veduta sperienza nelli liti marini, li quali ricevano le acque contro alli lor sassi e li spingano infra le erte spiagge; e spesse volte accade che ‘l corso dell’onda non è ancora ammezzato, che le pietre da quella portate ritornano al mare onde di partirono; la riuna delle quali è aumentata colla potenzia dell’onda che ricade dalle alte spinge. 

Alla deriva. Sulla terra. Sul mio corpo. Sulle tue labbra. Nella cultura. Nei sentimenti. Nel futuro. Sono un naufrago: un sopravvissuto che l’esistenza ha restituito prima che decida di riassorbirmi, per l’ultima volta, in quell’andirivieni dal quale provengo. Tra quelle onde che sono i miei giorni, trovo le immagini create da Barbara Pietrasanta e tra quei colori stesi sapientemente, ritrovo anche qualcosa di me, qualcosa del mare e qualcosa che mi invita a proseguire.

Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorarsi qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? 
Diciamo tutto in una parola sola o in una sola parola tutto nascondiamo? Sto qui, a una passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è. Il mare. Il mare. 

Inizio col raccogliere un frammento di corda, anch’essa restituita dal mare. La salsedine l’ha irrigidita e sfibrata; è ruvida e la lascio scivolare sulla mia pelle perché, nel suo abradere, ho la speranza che porti via anche qualche cosa d’altro, che ho affogato dentro di me, in quegli oscuri fondali che un po’ mi accomunano a quel mare dentro. Come dopo il naufragio ci sono scelte da affrontare, decisioni, nuove ancore da costruire e indipendenze da recuperare. Sono presente e assente nel medesimo tempo, un oceano nel cuore e nei pensieri, ma i piedi sulla dura terra; così come le due ragazze del dipinto, con le quali è impossibile pensare di poter parlare. Quel frammento di gomena che una delle due stringe tra le sue mani, mi pare esattamente quello che sento aggrovigliato nel mio petto mentre, quella in piedi, mi mette di fronte all’indecisione di compiere quel passo in avanti che entrambi vorremo, ma che forse, non compieremo mai. C’è sempre quella corda che mi protegge e mi limita. Perché io non sono una venere Anadiomene e, Se ci fosse il mare non ritroverei la mia verginità, ma il mio silente lato infantile, probabilmente, userebbe quella stessa corda, che ancora tengo tra le mani, per iniziare un tiro alla fune tra Me e Me. Ci sono altri Effetti personali sulla battigia, anche il mare, a volte, sembra indeciso: spinge avanti attraverso l’onda frangente e riporta a sé, recuperando nella risacca, quello che ancora non è pronto a lasciare andare.

Comu mare ca fatica
Cu nu lassa terra soa 

Guardo verso l’orizzonte, se è vero che bisogna tornare per poter ripartire, io mi trovo a dover scegliere se salire su La nave di Delo o su un pattino di Salvataggio. Dopo L’ultimo naufragio che l’intera umanità si è trovata a vivere, ho capito che non vi è terraferma sicura perché “Come sul capo al naufrago, l’onda s’avvolve e pesa”, così mi accorgo che tutto intorno a me è alto mare. Mi perdo nelle onde che creo nella mia tazza di caffè,
la stessa bevanda tanto cara a Pietrasanta che, nei suoi “Risvegli”, aveva anticipato, invertendo l’ordine, di quella che potrebbe essere una risposta ai “Naufragi”, dove gli esasperati panneggi dei lenzuoli, ora appaiono ai miei occhi come il fragoroso incresparsi delle onde che si sarebbero stagliate contro le nuove tele di questa raffinata artista. Con ancora in bocca il sapore dell’espresso cerco di aprire bene gli occhi, come dopo un sonno che, però, non ha ristorato le mie membra, ma le ha atrofizzate nell’attesa di potersi destare e tornare ad essere. 

Guardo verso l’orizzonte; guardo verso la riva e non vi è più solo mare perché Il Mare è solo un pretesto per Pietrasanta. È il Mondo che questa pittrice vuole invitarmi ad osservare. La nave dell’io è adagiata sul fondo delle acque che hanno sommerso o, forse, reso visibili i fondali inquinati della società e, la traversata di questo momento storico, ora è carica di quella stessa speranza che potrei rinominare Lampedusa
Forse la risposta è proprio in quel movimento di risacca: non è un semplice guardare indietro, ma ripercorrere una strada a ritroso, per impararne i limiti e gli ostacoli, per offrire una seconda possibilità al frangente e, questa volta, non naufragare, ma approdare su una nuova Terra.

Diego Pasqualin