Patrizia Raveggi

Patrizia Raveggi

09/01/2019
Con Patrizia Raveggi alla collocazione della scultura “Don’t look inside” nella Collezione Farnesina.

Barbara, che da Milano attraverso New York da anni sferra le sue risposte (o scaglia i suoi interrogativi: Why? Where? Who? sparsi nella recentissima opera “15 words and a red dot”) ripetendo i temi che l’ossessionano, contro il collasso, la frana, la cancrena con cui il volto della societa’ si manifesta, usando il (proprio o altrui) corpo per filtrare l’attualita’ (la catastrofe epocale incarnata nelle due gemelle di “11 settembre”, la bellezza classica su cui incombe ineluttabile violazione, nella silhouette rinascimentale di “Petrolio”; lo straniamento, spaesamento, solitudine, nel travestito di “Leslie”, la doppiezza nei due profili affrontati (l’angelo della storia di Benjamin?) di “Senza titolo”; la crudelta’ di chi ci e’ vicino, ci giudica e condanna nella farfalla trafitta di “Condominio”) o per ritrarre il rigoglioso respiro del consumismo (il busto leonardesco di Icona 1) unendolo alla natura ed alla storia (“Oltre il muro” Beyond the wall).
Nel filo delle trasformazioni, nel maturarsi ed ampliarsi della sua gamma creativa (senza esitare ad usare la tecnica dell’affresco, oggi assai poco frequentata, in un imponente ciclo dedicato alla Via Crucis) e’ riconoscibile la continuita’, il senso del complicato e del molteplice, del relativo e dello sfaccettato che determina in lei un’attitudine di perplessita’ sistematica.
Da sempre le opere di Barbara si possono agevolmente leggere in chiave narrativa, ci sono sempre uno o piu’ personaggi – o parti di personaggi- in scena, al centro o ai margini, quella di Barbara non e’ una visione dell’assenza, evita le sfumature ermetiche, si indirizza ad un’espressivita’ il cui apparente realismo si filtra tuttavia di memoria o nostalgia, di un sottile pervasivo senso di precarieta’.
L’atteggiamento distaccato, al tempo freddo e struggente, lo sguardo deluso dai rapporti con il mondo che equivale ad uno scacco sul piano pratico, si rivale sul piano della trasfigurazione lirica: Barbara intinge in coloriture indiane lo sfondo di un (auto?) ritratto concepito quando, correva l’anno 2002, l’India era evocata come un’ipotesi dell’irrealta’. All’ India dedica “Ovulation”, connubio fantastico della Dea Kali (in una mitigata versione ad uso occidentale) e simboli di fertilita’, muovendosi cosi’ con fermezza e con largo anticipo verso l’auspicato incrocio e fusione.
E’ stato osservato che, volendo a tutti i costi etichettare l’arte contemporanea, la si potrebbe definire come un progressivo processo di disidentificazione e sradicamento rispetto alle proprie tradizioni, un continuo strapparsi dalla propria radice, “nella consapevolezza che la propria radice e’ paradossalmente questo stesso strappo”.
Il senso del cammino e’ dunque proprio in questo volontario strappo finalizzato a procedere verso una civiltà fatta di intrecci, incontri e scambi continui tra sponde, popoli, culture, individui, tra colori e suoni diversi.
Come le storie narrate, cosi’ le opere d’arte non possono essere chiuse nei limiti di un unico orizzonte; le culture e le tradizioni sono sempre luoghi di traduzione e di trasformazione e di transito, luoghi – fisici o immaginati – in cui si possono tracciare diversi percorsi in un mondo differenziato, eterogeneo.